Come (e perché) la moda deve essere sostenibile

Come (e perché) la moda deve essere sostenibile

La globalizzazione, il sistema capitalistico, la necessità di seguire le tendenze, per il bisogno compulsivo di sentirsi sempre al passo coi tempi: sono queste alcune tra le cause che hanno portato allo sviluppo di quel sistema conosciuto al pubblico come “fast fashion”.  

Nella storia dell’uomo, i vestiti non sono mai costati così poco. A partire dalla fine degli anni ‘90 fino al consolidamento durante il primo ventennio degli anni 2000, il settore della moda ha raggiunto il triste traguardo di “seconda industria più inquinante al mondo”. Ma i tempi sembrano maturi per una svolta green, indispensabile affinché anche questo comparto contribuisca alla lotta contro la crisi climatica.

Ma come può la moda diventare etica e sostenibile? Le soluzioni esistono, ma serve un cambio di mentalità da parte delle aziende del settore e una maggiore sensibilità dei consumatori sull’importanza di compiere scelte di consumo sostenibili. 

Le crepe emergenti del “fast fashion”

Con “industria del fast fashion” si intende il sistema produttivo che, come la parte sommersa di un iceberg, sta sotto le catene internazionali di vestiti a basso costo. Qui si trovano prezzi irrisori per capi-fotocopia, realizzati su imitazione e ispirati da quelli delle grandi case di moda. 

La proposta al mercato di nuovi capi è continua. Si stima che le aziende realizzino un ricambio completo dell’intera collezione ogni 15-20 giorni. Ciò avviene per soddisfare il costante desiderio di una clientela che ambisce a stare sempre al passo coi tempi, acquistando in maniera compulsiva anche indotta dai mass media con spot e inserzioni pubblicitari e promozionali, oltre che dalle migliaia di social media influencer in tutto il mondo.

Inizialmente considerato una “democratizzazione del lusso”, questo sistema sta via via mostrando sempre più apertamente le sue carenze: sfruttamento di manodopera decentrata a basso costo, scarso interesse per una produzione consapevole ed ecosostenibile e un enorme impatto ambientale. L’obiettivo è un’offerta di scarsa qualità per un periodo molto breve.

L’impatto ambientale e sociale devastante del fast fashion

Secondo i dati dell’Agenzia Europea dell’Ambiente riportati dal Parlamento europeo, nel 2020 il consumo di prodotti tessili nell’UE ha causato un’impronta di carbonio pro capite di 270 Kg di CO2eq. In particolare, per ogni cittadino europeo l’utilizzo di capi d’abbigliamento, perlopiù provenienti dal fast fashion, ha richiesto 400 mq di terreno, 391 Kg di materie prime e 9 m3 di acqua.

A livello globale, si stima che l’industria tessile utilizzi 79 miliardi di metri cubi d’acqua (dati 2015), ad esempio usando fino a 2.700 litri di acqua dolce per realizzare una sola maglietta di cotone. Inoltre, il settore tessile è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento idrico a livello mondiale, mentre il solo lavaggio dei capi sintetici produce il 35% delle microplastiche rilasciate nell’ambiente in tutto il mondo. 

Il settore del fast fashion ha anche enormi ricadute sociali, soprattutto nei Paesi più poveri e tra le comunità più vulnerabili. In Bangladesh, ad esempio, secondo produttore al mondo di vestiti dopo la Cina, nel 2013 morirono 1138 lavoratrici di una fabbrica tessile, rimaste schiacciate dalle macerie dopo il crollo dello stabilimento in cui lavoravano in condizioni precarie, un evento causato dalla mancata manutenzione dell’edificio.

In Cile, invece, si trova la più grande discarica al mondo di vestiti, dove confluisce la maggior parte dei prodotti di scarto dell’industria del fast fashion, compresi capi nuovi e mai utilizzati. La discarica si trova nel Deserto dell’Atacama, salito alla ribalta nel 2022 dopo che la stampa mondiale ha mostrato il deserto cileno completamente pieno di vestiti usati di provenienza occidentale, abiti che soltanto in minima parte vengono riutilizzati o riciclati.  

Per fare un altro esempio, l’Indonesia  è un esempio di come la produzione di una fibra tessile – il rayon (viscosa) - può compromettere la salute delle persone oltre alla sopravvivenza di foreste millenarie e di migliaia di specie animali e vegetali. 
In Italia, dove negli anni ‘20 del secolo scorso in tutta la penisola sorsero distretti tessili dedicati alla produzione di quella che, allora, veniva comunemente chiamata ‘seta artificiale’, l’ultima fabbrica di viscosa è stata chiusa nel 2007. Ma il problema si è soltanto spostato nell’Estremo Oriente, per esempio, appunto, in Indonesia.
 

Slow fashion: una questione di tempistiche

Ad opporsi al sistema del fast fashion sono sia le grandi case di moda, brand che ambiscono a mantenere il primato del mercato, sia i marchi minori e le piccole boutique sartoriali che fanno ancora oggi dell’attenzione al dettaglio, alla qualità di lavorazione e di produzione la loro cifra stilistica distintiva. 

Per realizzare un vestito di qualità ed ecosostenibile, infatti, occorrono tempo e cura. Questa parte di aziende del settore moda, sempre più numerosa, che si oppone al mondo del fast fashion viene definita “slow fashion”, rivendicando per antinomia la disponibilità del tempo necessario alla produzione di un capo destinato a durare ben più di una stagione. 

La slow fashion ci parla dunque di un’industria più consapevole e responsabile, che affonda le sue radici nella tradizione artigianale e propone una moda etica ed ecosostenibile. L’approccio in questo caso è quello di puntare sulla qualità del capo e il rispetto di chi lo crea, invece di centralizzare il business sulla quantità, prezzi low cost e il rinnovo continuo delle collezioni. 

Le caratteristiche della moda sostenibile e responsabile

Per definizione, fanno parte dello slow fashion tutte quelle realtà imprenditoriali che aderiscono al concetto di moda etica ed ecosostenibile.

Quando si parla di “moda etica” si fa riferimento a chi è coinvolto nel processo produttivo dei capi d’abbigliamento. Un brand “slow fashion” non ha una produzione dislocata, ma crea occupazione nel suo territorio di appartenenza. Inoltre, offre un impiego dignitoso, con salari e orari lavorativi adeguati e in linea coi contratti collettivi di lavoro del settore, nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici garantendo ferie, malattia pagata e un ambiente di lavoro salubre e sicuro.

Quando si parla di “moda sostenibile” si indica invece il processo produttivo: un brand appartenente alla categoria “slow fashion” si impegna ad avere il minor impatto possibile sull’ambiente. Il che significa l’utilizzo di materiali prodotti con fonti di energia rinnovabile, l’impiego di coloranti naturali che siano conformi alle normative di legge e non altamente inquinanti, oltre alla riduzione di ogni genere di spreco durante tutto il processo produttivo.

Fare moda etica e sostenibile, producendo vestiti ecosostenibili, è dunque possibile. Oggi esistono infatti molte realtà produttive che hanno aderito a questa versione del fashion business. Oltre alla trasformazione del sistema produttivo, occorre tuttavia anche un cambio delle abitudini di consumo. Se l’offerta non incontra la domanda dei consumatori lo “slow fashion” non ha mercato e rischia di cedere sotto il peso dei suoi stessi punti di forza. Affinché la moda diventi davvero etica e sostenibile, quindi, è necessario che ognuno faccia la sua parte attraverso scelte di consumo responsabili. 

Inoltre, è fondamentale promuovere un utilizzo più sostenibile dei capi di abbigliamento, ad esempio allungandone la vita utile preferendo apportare una piccola riparazione invece di buttare via un capo e acquistarne subito uno nuovo, oppure scambiando i vestiti con famigliari e amici quando non si indossano più. Un’alternativa che si sta affermando è anche quella del mercato di seconda mano per abiti di utilizzo quotidiano o del vintage per capi dal maggior valore, sia per i materiali utilizzati sia per il design firmato. Gli indumenti possono anche essere trasformati quando non si possono aggiustare, ad esempio riutilizzandoli in modo creativo realizzando una gonna da un paio di jeans o delle decorazioni per altri vestiti.

Articolo pubblicato il: 12/09/2023